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Visualizzazione dei post da novembre, 2020

Elogio del "negative thinking"

Sia messo agli atti che il titolo non è propriamente provocatorio. Ho appena inventato la corrente filosofica del “negative thinking” non tanto perché credo nel valore della negatività, quanto perché considero limitante il “positive thinking” ma soprattutto l'“andratuttobenismo”.  Occorre un’importante precisazione: dagli aggettivi negativo e positivo vanno espunti i giudizi di valore, nel mio ragionamento. Quindi positivo è semplicemente il polo +, e negativo è il polo -.    Il polo + è concentrarsi sugli aspetti della vita che evocano sensazioni che definiamo di benessere, ed è anche una visione delle cose edulcorata dalla speranza.   Vi cito Antigone di Sofocle: La molto errante speranza a molti è di aiuto; per molti invece è solo inganno, impulso di menti leggere; si insinua in chi nulla sa, prima che il fuoco ardente gli bruci il piede. Fu saggio chi pronunciò questo detto famoso: a volte un bene appare male a colui la cui mente un dio vuole portare a rovina. Breve è il tempo

La scuola

 Giornata in cui va tutto storto, periodo in cui va tutto storto, uno ci prova a dire vabbè, pensiamo a qualcosa di bello, ma non c'è, e credo che non avere il coraggio di ammettere che tutto è una merda per tutti, o almeno per molti, sia finanche un po' idiota. Non serve a niente, ora, dire "vabbè, ma io sono fortunato, ho il giardino". Non serve a un fottuto cazzo di niente. Cioè, non fraintendetemi, è lecito e sano, quando entriamo nel letto in preda all'angoscia trovare qualcosa a cui attaccarci per riuscire a dormire o a non stare chiusi in casa in preda alla paranoia. Serve eccome, ci tiene fuori dalla pazzia. Ma a livello sociale, serve a poco. piazza Spose dei Marinai, Cesenatico L'insoddisfazione serve, la rabbia serve, toccare il fondo e sentirsi più soli e tapini di sempre, questo sì, serve, perché nella mia esperienza di fondi toccati, arrivare ad avere la faccia piallata nella merda è l'unico modo per cambiare le cose. Avere un ditino nella ca

Il mio posto sicuro

Delle volte, in ascensore, appoggio la testa alla parete di ferro verniciata di verde; mi vedo da fuori, stremata, sotto alla luce del neon, come se ci fosse una camera nell’angolo alto della cabina, e penso che potrei scrivere un post su questo senso di sovraccarico che provo. Già alle 8.30 di mattina, quando porto il cane a pisciare. Poi non lo faccio mai. Perché quel senso di sovraccarico non è una mia menata, dovuta all’emergenza geriatrica, o alla rava e alla fava; è uno stato reale, fisico, come di un vaso troppo pieno. Che non mi lascia le energie neanche per scriverne. Perché delle volte, nella vita, ci sono delle cose, chiamiamoli problemi, oppure anche, perché no, loop personali, che non lasciano spazio ad altro. È un po' come quando avevo ventisette anni, ero appena stata mollata, e l'ho realizzato solo quando, una sera, c'è stata una leggera scossa di terremoto e io ero sola sul divano e, pensando alle mie tre piccole che dormivano in tre lettini tutti attacca