Una volta ho provato a fare una vita un po' coerente con i miei principi anti-capitalistici, e di conseguenza, abbastanza sostenibile, anche se non fuori dal sistema, off - the - grid, come dicono alcuni miei amici che invece hanno scelto una strada più radicale.
In pratica è andata così.
Come sapete sono nata in una famiglia umile in una cittadina in mezzo alla campagna romagnola, si chiama Faenza. Ho studiato scienze politiche, classe diritti umani, grazie all’ente per il diritto allo studio che, per via della media alta, mi dispensava dalla retta dell’università. Sono andata a lavorare come commessa per tutta la durata degli studi (anche tutte le estati delle superiori ho fatto di tutto, dalla cameriera, all'operaia, alla lavapiatti) per pagarmi i vestiti, l’abbonamento del treno e la benzina di una Punto di terza mano. Eppure man mano che proseguivo con gli studi, specie quelli terzomondisti, mi sono resa conto di essere nata dalla parte giusta del mondo, di essere fottutamente ricca. Sì, anche se durante la mia infanzia a casa di nonna avevamo i vetri rotti riparati con scotch e giornali. Anche se avevo visto molte volte il fondo del frigo. Anche se avevo vissuto per periodi lunghissimi col gas staccato.
Leggevo i giornali di economia etica quando ancora i prodotti cinesi al mercato erano una novità, quando nessuno parlava di low cost. Dopo l’uni non sognavo un lavoro in azienda ma una vita giusta. Cominciavo a informarmi su progetti di cooperazione internazionale quando Camilla e Lucia mi hanno scelto come mamma. Siccome il babbo delle bambine era abbastanza come me, abbiamo provato a far vivere alla nostra famiglia (come sapete dopo undici mesi è arrivata anche Carolina), il mio/nostro progetto di “giustizia”. Niente tv, niente battesimo, niente indottrinamenti: a un certo punto ci siamo trasferiti tutti in mezzo all’Appennino, e nel giro di un altro paio d’anni sono rimasta da sola a portare avanti questo pazzo progetto. Non avevo ancora ventisette anni. Avevo ventisette anni, tra bimbe da mantenere e un piccolo mutuo, e avevo sofferto da piccola la mancanza di opportunità e la fatica anche solo per comprare i libri di scuola. Così, pensando fosse bene per le bimbe (e anche per me), ho fatto una vita “alternativa a metà”: andavo a lavorare, paradossalmente facevo (e faccio) marketing digitale, e poi tornavo a casa e non possedevo elettrodomestici, a parte la lavatrice e il frigo (non avevo neanche il frizer, per dire), non avevo internet a casa, il telefono non prendeva, e frequentavo quasi solo persone più alternative di me.
Mangiavamo raramente la carne, pagavo bollette bassissime, mettevamo quasi solo vestiti usati, avevo solo mobili usati (neanche comprati al mercatino. Molti li avevo intercettati da conoscenti che li stavano per buttare, ad esempio le poltrone le avevo avute dall'albergo dove lavorava mio fratello perché non essendo ignifughe erano costretti a rottamarle).
Poi cos’è successo?
Mi sono accorta che la nostra vita era tranquilla (anche se i piccoli guasti a casa, la macchina perennemente in panne e le cartelle esattoriali a volte mi toglievano il sonno), ma completamente ferma, quasi claustrofobica.
Volevo cambiare azienda ma sembrava impossibile: in provincia raramente scegli che lavoro fare, devi ringraziare se trovi un posto.
Le cose non succedevano, persino andare in vacanza sembrava un’impresa titanica. Stare ai margini ti preclude molto. E a trent'anni non è il massimo sospirare pensando "ah, non sono mai stata a Buenos Aires", "ah, non ho mai scritto un libro", "ah, nel raggio di trenta chilometri non c'è un uomo che mi piaccia".
Contemporaneamente avevo messo su questo blog.
E mi cercavano realtà importanti chiedendomi di lavorare per loro (nel 2011 ho fatto un progetto di storytelling per Barilla, ho scritto qualche articolo per il bambino di Donna Moderna, ho avuto una rubrica mia su Gioia!, e non ve l’ho mai detto ma una volta ho rifiutato un family reality che doveva essere girato a casa mia).
E ho conosciuto gente incredibile che viveva le vite più disparate: romani, milanesi, emigrati, professoresse universitarie, editori bohemien, attori di stand up comedy, traduttrici, “artisti border line”, una volta ho passato la mattinata al telefono con una teologa incredibile che mi ha trovata qui e che cercava di portare avanti il progetto di convincere la chiesa che l’educazione laica o addirittura atea esiste e non è “mancanza di valori”.
Il resto lo sapete: un giorno ero da sola a Berlino e mi è arrivato così forte il pensiero “La vita è una sola”, che nel giro di un anno, ho mollato tutto e sono andata a vivere al mare, in città - dove ho trovato lavoro, in pratica.
Stesso lavoro, ma vita completamente diversa: senza che neanche me ne accorgessi è venuto a mancare il progetto di giustizia e di sostenibilità, perché ora viviamo come tutti gli altri. La tv non l’abbiamo mai avuta ma vivere senza internet ormai ci pare utopico. Come molti altri sono sempre attaccata al telefono. Le ragazze vanno al liceo e sembrano proprio come tutti gli altri (ma guardacaso tutti i loro amici sono in qualche modo “diversi”: expat, transgender, queer le categorie più rappresentate). Ho conosciuto gente nuova, sono uscita da certi miei loop di timidezza paralizzante. Adesso sono una persona abbastanza adeguata. Fare un viaggio extracontinentale non è più un problema. Non ho più paura dei miei limiti. Mi sono abituata a mangiare normalmente perché mia madre sta qui quattro giorni a settimana e quindi la mia cucina povera non è più un’opzione. Tocca pure vestirsi quasi normalmente perché mi sento troppo grande per i vestiti eccentrici che compravo una volta al mercatino dell’usato.
Forse sono semplicemente cresciuta.
Mi chiedevo solo la mia vita giusta sarebbe potuta anche essere felice, e temo di no.
Credo che pensare di poter vivere una vita giusta e sostenibile senza mettere in discussione il nostro intero stile di vita (no, non si tratta di sostituire i bicchieri di plastica con la borraccetta) non sia abbastanza e credo anche che la cosa più difficile non sia fare la raccolta differenziata ma lottare contro il mondo attorno a te, a cominciare dai figli adolescenti che cominciano a fare le loro scelte e col cazzo che mettono due maglioni di pile come te per non inquinare col riscaldamento acceso.
Per anni ho provato a convincere mia madre a lasciarmi vivere il mio Natale ateo e minimalista: no regali, no Babbo Natale, no pacchi da scartare, no cibo da buttare, ma niente, non ce l’ho fatta. E vi sento già commentare "Uh, che esagerata".
Lottare contro la scuola che ti chiede molto spesso di comprare cose (a partire dai libri di carta che potrebbero essere benissimo digitali, anzi, lo sono già) è impossibile. Restano per fortuna gli scout che sul lato dell’anti-consumismo sono l’entità più vicina al “giusto” che conosco.
Ma soprattutto, vivere nella periferia culturale, significava rinunciare a tanti piccoli sogni innocui, anche solo che le bimbe potessero scegliere una scuola migliore o una compagnia migliore. Mi mandava fuori di testa il razzismo a scuola. La scuola stava diseducando le mie bambine.
Ho fallito in quella che credevo essere la mia missione personale, perché combattere contro tutto e tutti non mi rendeva felice, era frustrante. Ma aspetto la mia prossima vita (tra cinque anni, quando le bimbe andranno all’uni) per vedere se riuscirò ad essere quella che vorrei: per la prima volta Valentina sarà davvero libera e sono curiosa di sapere che cosa combina.
In fondo essere shasheur (che significa essere questo e anche quello, è un neologismo francese), è una caratteristica della mia generazione.
In pratica è andata così.
Come sapete sono nata in una famiglia umile in una cittadina in mezzo alla campagna romagnola, si chiama Faenza. Ho studiato scienze politiche, classe diritti umani, grazie all’ente per il diritto allo studio che, per via della media alta, mi dispensava dalla retta dell’università. Sono andata a lavorare come commessa per tutta la durata degli studi (anche tutte le estati delle superiori ho fatto di tutto, dalla cameriera, all'operaia, alla lavapiatti) per pagarmi i vestiti, l’abbonamento del treno e la benzina di una Punto di terza mano. Eppure man mano che proseguivo con gli studi, specie quelli terzomondisti, mi sono resa conto di essere nata dalla parte giusta del mondo, di essere fottutamente ricca. Sì, anche se durante la mia infanzia a casa di nonna avevamo i vetri rotti riparati con scotch e giornali. Anche se avevo visto molte volte il fondo del frigo. Anche se avevo vissuto per periodi lunghissimi col gas staccato.
Leggevo i giornali di economia etica quando ancora i prodotti cinesi al mercato erano una novità, quando nessuno parlava di low cost. Dopo l’uni non sognavo un lavoro in azienda ma una vita giusta. Cominciavo a informarmi su progetti di cooperazione internazionale quando Camilla e Lucia mi hanno scelto come mamma. Siccome il babbo delle bambine era abbastanza come me, abbiamo provato a far vivere alla nostra famiglia (come sapete dopo undici mesi è arrivata anche Carolina), il mio/nostro progetto di “giustizia”. Niente tv, niente battesimo, niente indottrinamenti: a un certo punto ci siamo trasferiti tutti in mezzo all’Appennino, e nel giro di un altro paio d’anni sono rimasta da sola a portare avanti questo pazzo progetto. Non avevo ancora ventisette anni. Avevo ventisette anni, tra bimbe da mantenere e un piccolo mutuo, e avevo sofferto da piccola la mancanza di opportunità e la fatica anche solo per comprare i libri di scuola. Così, pensando fosse bene per le bimbe (e anche per me), ho fatto una vita “alternativa a metà”: andavo a lavorare, paradossalmente facevo (e faccio) marketing digitale, e poi tornavo a casa e non possedevo elettrodomestici, a parte la lavatrice e il frigo (non avevo neanche il frizer, per dire), non avevo internet a casa, il telefono non prendeva, e frequentavo quasi solo persone più alternative di me.
Mangiavamo raramente la carne, pagavo bollette bassissime, mettevamo quasi solo vestiti usati, avevo solo mobili usati (neanche comprati al mercatino. Molti li avevo intercettati da conoscenti che li stavano per buttare, ad esempio le poltrone le avevo avute dall'albergo dove lavorava mio fratello perché non essendo ignifughe erano costretti a rottamarle).
Poi cos’è successo?
Mi sono accorta che la nostra vita era tranquilla (anche se i piccoli guasti a casa, la macchina perennemente in panne e le cartelle esattoriali a volte mi toglievano il sonno), ma completamente ferma, quasi claustrofobica.
Volevo cambiare azienda ma sembrava impossibile: in provincia raramente scegli che lavoro fare, devi ringraziare se trovi un posto.
Le cose non succedevano, persino andare in vacanza sembrava un’impresa titanica. Stare ai margini ti preclude molto. E a trent'anni non è il massimo sospirare pensando "ah, non sono mai stata a Buenos Aires", "ah, non ho mai scritto un libro", "ah, nel raggio di trenta chilometri non c'è un uomo che mi piaccia".
Contemporaneamente avevo messo su questo blog.
E mi cercavano realtà importanti chiedendomi di lavorare per loro (nel 2011 ho fatto un progetto di storytelling per Barilla, ho scritto qualche articolo per il bambino di Donna Moderna, ho avuto una rubrica mia su Gioia!, e non ve l’ho mai detto ma una volta ho rifiutato un family reality che doveva essere girato a casa mia).
E ho conosciuto gente incredibile che viveva le vite più disparate: romani, milanesi, emigrati, professoresse universitarie, editori bohemien, attori di stand up comedy, traduttrici, “artisti border line”, una volta ho passato la mattinata al telefono con una teologa incredibile che mi ha trovata qui e che cercava di portare avanti il progetto di convincere la chiesa che l’educazione laica o addirittura atea esiste e non è “mancanza di valori”.
Il resto lo sapete: un giorno ero da sola a Berlino e mi è arrivato così forte il pensiero “La vita è una sola”, che nel giro di un anno, ho mollato tutto e sono andata a vivere al mare, in città - dove ho trovato lavoro, in pratica.
Stesso lavoro, ma vita completamente diversa: senza che neanche me ne accorgessi è venuto a mancare il progetto di giustizia e di sostenibilità, perché ora viviamo come tutti gli altri. La tv non l’abbiamo mai avuta ma vivere senza internet ormai ci pare utopico. Come molti altri sono sempre attaccata al telefono. Le ragazze vanno al liceo e sembrano proprio come tutti gli altri (ma guardacaso tutti i loro amici sono in qualche modo “diversi”: expat, transgender, queer le categorie più rappresentate). Ho conosciuto gente nuova, sono uscita da certi miei loop di timidezza paralizzante. Adesso sono una persona abbastanza adeguata. Fare un viaggio extracontinentale non è più un problema. Non ho più paura dei miei limiti. Mi sono abituata a mangiare normalmente perché mia madre sta qui quattro giorni a settimana e quindi la mia cucina povera non è più un’opzione. Tocca pure vestirsi quasi normalmente perché mi sento troppo grande per i vestiti eccentrici che compravo una volta al mercatino dell’usato.
Forse sono semplicemente cresciuta.
Mi chiedevo solo la mia vita giusta sarebbe potuta anche essere felice, e temo di no.
Credo che pensare di poter vivere una vita giusta e sostenibile senza mettere in discussione il nostro intero stile di vita (no, non si tratta di sostituire i bicchieri di plastica con la borraccetta) non sia abbastanza e credo anche che la cosa più difficile non sia fare la raccolta differenziata ma lottare contro il mondo attorno a te, a cominciare dai figli adolescenti che cominciano a fare le loro scelte e col cazzo che mettono due maglioni di pile come te per non inquinare col riscaldamento acceso.
Per anni ho provato a convincere mia madre a lasciarmi vivere il mio Natale ateo e minimalista: no regali, no Babbo Natale, no pacchi da scartare, no cibo da buttare, ma niente, non ce l’ho fatta. E vi sento già commentare "Uh, che esagerata".
Lottare contro la scuola che ti chiede molto spesso di comprare cose (a partire dai libri di carta che potrebbero essere benissimo digitali, anzi, lo sono già) è impossibile. Restano per fortuna gli scout che sul lato dell’anti-consumismo sono l’entità più vicina al “giusto” che conosco.
Ma soprattutto, vivere nella periferia culturale, significava rinunciare a tanti piccoli sogni innocui, anche solo che le bimbe potessero scegliere una scuola migliore o una compagnia migliore. Mi mandava fuori di testa il razzismo a scuola. La scuola stava diseducando le mie bambine.
Ho fallito in quella che credevo essere la mia missione personale, perché combattere contro tutto e tutti non mi rendeva felice, era frustrante. Ma aspetto la mia prossima vita (tra cinque anni, quando le bimbe andranno all’uni) per vedere se riuscirò ad essere quella che vorrei: per la prima volta Valentina sarà davvero libera e sono curiosa di sapere che cosa combina.
In fondo essere shasheur (che significa essere questo e anche quello, è un neologismo francese), è una caratteristica della mia generazione.
E' da lungo tempo che ti seguo silenziosamente, ti ho sempre ammirato per la tua limpidezza e la tua grande forza di volontà, ti auguro ogni bene e che tu possa finalmente godere della bellezza della libertà. Ciao
RispondiEliminaGuarda, non ho fatto in tempo a scrivere il post che mia figlia Lucy mi ha ricordato che la sua idea sarebbe quella di fare medicina (e quindi di restare a casa fino ai 30 :D).
EliminaQuando hai dei figli devi trovate un punto d'incontro tra quello che vuoi dalla tua vita, quello che vorresti per loro, quello che vogliono loro e la disponibilità del tuo portafoglio.
RispondiEliminaTu non ti adagi e la tua testa non si ferma mai, prima o poi ti sentirai in pace con il tuo stile di vita.
Colgo l'occasione di questo commento per dirti che io la tua serie l'ho guardata e caspita che testa hai. Scrivere una cosa così, beh complimenti. Ho riso, ho pianto, ho riflettuto. Brava bravissima. Continua a scrivere, sempre qualunque cosa. Sei brava e sei una super donna, una super donna che vorrei poter conoscere e presentare come amica perché sarebbe un orgoglio pazzesco e me la tirerei tantissimo. Devi essere fiera di te e di ciò che sei
Grazie mille. Della serie ho scritto solo il primissimo soggetto (oltre che tutto quello che c'è qui dentro, che ha rappresentato la risposta alla domanda "ma Olivia, che diavolo ha in testa?"). Il vero scrittore è stato Alessandro Sermoneta e un team di ottimi sceneggiatori. E i coraggiosi sono stati quelli che hanno deciso che questa cosa così fuori di testa potesse funzionare.
EliminaSpesso ciò che crediamo sia giusto per noi non lo è per chi ci è accanto, ma credo che te sia riuscita a trovare il giusto compromesso per te e la tua famiglia quindi continua così
RispondiEliminaNon sono tipa da compromessi e infatti non mi sembra un buon compromesso. Però sto bene e poi grazie a dio non dobbiamo fare le stesse cose per tutta la vita, oggi posso vivere così, domani cosà :)
Eliminaanche io credo che tu abbia trovato il compromesso giusto
RispondiEliminaa presto
Io non ho questa percezione, ma forse la vita è proprio questo: cercare costantemente un compromesso accettabile.
EliminaAnch'io ho avuto un periodo di intensa sperimentazione di vita molto sobria, ma anch'io, rispecchiandomi in altri ancora più radicali di me, almeno nella teoria, ho cominciato ad avere la soffocante sensazione di una vita piccola piccola, dagli orizzonti ristretti. Non è una questione di superficialità o profondità necessariamente, è che per allargare gli orizzonti bisogna avere il coraggio di impegnare risorse. Credo che ognuno debba onestamente vivere secondo sé - un se' molto concreto, contestualizzato - in un dato momento della propria vita e della storia, ma se vive con una mano sulla coscienza (intesa come etica e come consapevolezza) questo non sarà necessariamente un atteggiamento rapace e consumista. Non smettere di farsi domande, nel mutamento continuo in cui viviamo, a momenti lo preferisco al darsi risposte, specialmente definitive. Scusa il pippone, tra l'altro inconcludente ��. Comunque rassicurati, si può continuare con successo a vestirsi di seconda mano anche passati in trenta, posso produrre prove ��
RispondiEliminaCara Isa, hai detto bene: possiamo un avere un ATTEGGIAMENTO rapace o meno, ma il punto è che io ho sempre creduto che vivere in occidente fosse di per sé rapace. E' vero però che le cose stanno cambiando, almeno in termini di potenze economiche mondiali.
Eliminabel post
RispondiEliminada giovane ero idealista, adesso preferisco guidare l'audi che essendo nuova inquina meno delle auto di quelli che giocano a fare gli alternativi ma i loro 100 km equivalgono a 3000 dei miei.
no, la sobrietà è come vivi, non quello che fai. la conosci la canzone degli afterhours no?
Caro Francesco, mi pare di capire che stai a Milano: c'è un'ottima ed ecologica rete di mezzi pubblici inesistente nel resto d'italia, specie quella appenninica e rurale. Se sei un sobrio ecologista, regala o vendi a un prezzo onesto l'audi a un povero stronzo che sta a buco del culo senza poter disporre dei mezzi pubblici e che si può permettere solo una macchina di merda, e usa i mezzi.
EliminaA 27 anni hai fatto tre figlie, io a 43 anni non ho avuto il coraggio di farne nemmeno uno... grande ammirazione per come hai vissuto! Ti invidio un po', in senso buono. Ylenia
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