Ricordo una cosa che mi mandava letteralmente fuori di testa da bambina: l’imposizione di determinati abiti, che poi in realtà faceva parte di un più ampio blocco psicologico rispetto alla richiesta di conformarmi.
Per esempio ricordo come fonte di profonda angoscia il tentativo di mia madre di mettermi le magliette smanicate d’estate. Avevo (ho) una voglia nella parte alta del braccio che mi vergognavo moltissimo di mostrare: visto che si diceva che derivasse da un desiderio represso della partoriente, la ritenevo l’ennesima distrazione di mia madre nei miei confronti.
Ma, dicevo, mi mandava ancora più nel panico l’imposizione di essere come gli altri, ad esempio comprare il primo (e non solo) grembiule scolastico fu una lotta, che si concluse con una scelta perentoria di mia madre, che ovviamente non apprezzai. Come se non odiassi già abbastanza presentarmi a scuola con un cognome che non mi rappresentava. Avevo sei anni.
A otto anni mi mandarono a dottrina perché si supponeva dovessi fare la comunione come tutti gli altri. Abbandonai ben presto il progetto con le seguenti motivazioni: 1) mi sembrano tutti ipocriti; 2) il saio bianco ve lo metterete voi.
Ripensandoci adesso, sento ancora l’intensità di quel rifiuto, ma mi stupisco il fatto che mia madre mi prese subito sul serio.
Quell’anno mi morì il padre e mia nonna mi disse così tante volte che lui avrebbe voluto che io prendessi i sacramenti che dopo due anni cedetti e feci la prima comunione (però mi volli vestire come mi pareva, e di nuovo rifiutai il saio).
A Carnevale mi sono travestita raramente, in genere con grandi tragedie.
Quando mi entusiasmo di fronte alle attività degli scout che frequenta mia figlia, penso sempre che io al suo posto sarei letteralmente impazzita, per la divisa, per l'irreggimentazione.
Quando dovevo andare all'ospedale per partorire, a ventidue anni, odiai d'istinto quella lista con gli indumenti che avrei dovuto mettere in valigia in qualità di puerpera (valigia poi. Che cosa aveva che non andava il mio zaino dell'Invicta?). Ero una studentessa, non mi ci vedevo con una camicia da notte premaman dotata di bottoni, da cui avrei dovuto estrarre dolcemente un seno da porgere alle creature. Così comprai una normalissima sottoveste in cotone, a una dozzina di euro: le tette potevano essere serenamente estratte dalla scollatura, senza bisogno di sembrare la madonnina che non ero.
Nonostante questo, provai ad attenermi alla lista prevista per il (i) bebè. L'anno dopo, tuttavia, mi ritrovai nello stesso ospedale con il secondo pancione che conteneva Carolina e una mamma in fila in sala d'aspetto mi disse: "non devi seguire per forza la lista, il figlio è il tuo: lo sai tu che cosa serve". Era alla sua quarta gravidanza. Quella frase mi si addiceva perfettamente: mi legittimava a fare quello che ritenevo opportuno, anche in quell'occasione. I primi giorni di Carolina in ogni caso fummo così sole e io così triste che non pensai né alle tutine né alle sottovesti.
Ho sempre provato un sottile istinto di scherno per le persone che ritenevo sentirsi a proprio agio nelle divise. Nella fattispecie ho questo lontanissimo ricordo di una volta che feci una prova di lavoro in un negozio, a meno di vent'anni: provavo fastidio nei confronti della collega che sembrava indossare la maglietta aziendale con orgoglio. Negli anni poi ho allenato l'empatia e ho sospeso il giudizio quasi su tutto: se uno si conforma, oggi la mia opinione al riguardo è neutra.
Al contempo, non chiedo mai agli abiti che indosso di dire qualcosa di me, non affido al mio aspetto la responsabilità di definirmi.
Mi sono stupita, recentemente, di essere andata a una festa anni sessanta vestita un po' rock'a'billy, proprio come gli altri. Starò maturando.
Per esempio ricordo come fonte di profonda angoscia il tentativo di mia madre di mettermi le magliette smanicate d’estate. Avevo (ho) una voglia nella parte alta del braccio che mi vergognavo moltissimo di mostrare: visto che si diceva che derivasse da un desiderio represso della partoriente, la ritenevo l’ennesima distrazione di mia madre nei miei confronti.
Io appena sveglia in campeggio |
Ma, dicevo, mi mandava ancora più nel panico l’imposizione di essere come gli altri, ad esempio comprare il primo (e non solo) grembiule scolastico fu una lotta, che si concluse con una scelta perentoria di mia madre, che ovviamente non apprezzai. Come se non odiassi già abbastanza presentarmi a scuola con un cognome che non mi rappresentava. Avevo sei anni.
A otto anni mi mandarono a dottrina perché si supponeva dovessi fare la comunione come tutti gli altri. Abbandonai ben presto il progetto con le seguenti motivazioni: 1) mi sembrano tutti ipocriti; 2) il saio bianco ve lo metterete voi.
Ripensandoci adesso, sento ancora l’intensità di quel rifiuto, ma mi stupisco il fatto che mia madre mi prese subito sul serio.
Quell’anno mi morì il padre e mia nonna mi disse così tante volte che lui avrebbe voluto che io prendessi i sacramenti che dopo due anni cedetti e feci la prima comunione (però mi volli vestire come mi pareva, e di nuovo rifiutai il saio).
A Carnevale mi sono travestita raramente, in genere con grandi tragedie.
Quando mi entusiasmo di fronte alle attività degli scout che frequenta mia figlia, penso sempre che io al suo posto sarei letteralmente impazzita, per la divisa, per l'irreggimentazione.
Quando dovevo andare all'ospedale per partorire, a ventidue anni, odiai d'istinto quella lista con gli indumenti che avrei dovuto mettere in valigia in qualità di puerpera (valigia poi. Che cosa aveva che non andava il mio zaino dell'Invicta?). Ero una studentessa, non mi ci vedevo con una camicia da notte premaman dotata di bottoni, da cui avrei dovuto estrarre dolcemente un seno da porgere alle creature. Così comprai una normalissima sottoveste in cotone, a una dozzina di euro: le tette potevano essere serenamente estratte dalla scollatura, senza bisogno di sembrare la madonnina che non ero.
Nonostante questo, provai ad attenermi alla lista prevista per il (i) bebè. L'anno dopo, tuttavia, mi ritrovai nello stesso ospedale con il secondo pancione che conteneva Carolina e una mamma in fila in sala d'aspetto mi disse: "non devi seguire per forza la lista, il figlio è il tuo: lo sai tu che cosa serve". Era alla sua quarta gravidanza. Quella frase mi si addiceva perfettamente: mi legittimava a fare quello che ritenevo opportuno, anche in quell'occasione. I primi giorni di Carolina in ogni caso fummo così sole e io così triste che non pensai né alle tutine né alle sottovesti.
Ho sempre provato un sottile istinto di scherno per le persone che ritenevo sentirsi a proprio agio nelle divise. Nella fattispecie ho questo lontanissimo ricordo di una volta che feci una prova di lavoro in un negozio, a meno di vent'anni: provavo fastidio nei confronti della collega che sembrava indossare la maglietta aziendale con orgoglio. Negli anni poi ho allenato l'empatia e ho sospeso il giudizio quasi su tutto: se uno si conforma, oggi la mia opinione al riguardo è neutra.
Al contempo, non chiedo mai agli abiti che indosso di dire qualcosa di me, non affido al mio aspetto la responsabilità di definirmi.
Mi sono stupita, recentemente, di essere andata a una festa anni sessanta vestita un po' rock'a'billy, proprio come gli altri. Starò maturando.
mi hai fatto venire in mente una fotografia della comunione di mio fratello, io molto piccolo in braghete corte azzurre, gilet azzurro e papillon. La cosa buffa è che non mi era stato imposto, mia madre mi ha sempre detto che lo avevo scelto io quel vestito. Oppure per tutti questi anni non ha avuto il coraggio di vuotare il sacco- :-)
RispondiEliminaChe carino! :)
EliminaÈ interessante. Io credo che le scelte anche degli abiti dicano parecchio, forse soprattutto quando non sono omologate.
RispondiEliminaFaccio fatica a trovare nei negozi qualcosa da comprare perché mi sembra tutto uguale e non mi piace; intendiamoci, io sono perennemente in scarpe da ginnastica e i capelli li porto raccolti in una treccia che è più facile. Mi curo anche troppo poco, ma ad uno che mi guarda son convinta che pure questo racconti parecchio del tipo di persona che sono.
In buona sostanza non ho mai creduto che l'abito faccia il monaco, ma che lo rappresenti con una buona approssimazione invece sì.
La treccia per dire la trovo già inusuale e caratterizzante, mi piace :)
EliminaSì, sì, sono d'accordo, alla fine neanche io cerco abiti che parlino per me, e però il tuo sile (qualunque sia) alla fine salta fuori e ti rappresenta. Sia che esci in tuta, sia che esci vestita come lady gaga, qualcosa di te il tuo aspetto comunica, volente o nolente.
Com'e' sono state le prime puntate della serie televisiva ispirata a questo blog? Io vivo all'estero e non ho potuto vederle.
RispondiEliminaIo l'ho trovata coinvolgente e vera, soprattutto adesso che leggo il blog... Vai su Rai play!
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