In molti anni di blogging ho assistito, come molti di voi, a un cambiamento sostanziale della blogsfera.
Qualcuno, come me, credo, è sempre rimasto fedele a se stesso e questo non è necessariamente premiante in termini di performance (e per un blog la performance è, in generale, l'aumento del numero di lettori), ma se l'obiettivo è il piacere personale, delle performance sticazzi, anche perché delle performance, per conto di altri, me ne devo già occupare otto ore al giorno. Questi blog, a parte qualche esempio brillante che è stato ripreso dai mass media e ha ingranato un circolo virtuoso di "popolarità", non sono "cresciuti", dove per crescere intendo diventare "mainstream". Spesso sono persino morti.
Altri blog si sono evoluti diventando "magazine", più o meno di nicchia. Questi blogger propongono contenuti non sempre strettamente personali ma condivisibili da un numero abbastanza ampio di persone. Se sono stati dei bravi "community manager", allora sono cresciuti e sono in grado di vendere spazi pubblicitari e "native advertising": quelle che vengono chiamate, in maniera impropria e se volete anche ingiustamente offensiva, marchette. Questi blog hanno spesso hanno mantenuto un tone of voice proprio, riconoscibile, che suona "vero" e genuino (e spesso lo è!).
Meno blog sono stati così bravi da crescere molto grazie a Google: sono quelli che rispondono a delle domande tipo "Come si fa la besciamella?"; "Cosa vedere a Parigi?". Ce l'hanno fatta, a mio avviso, puntando alla massa con registri non tradizionali (almeno in Italia, qualcuno che comunichi allo scopo di farsi capire, è una novità assoluta). Hanno lavorato sodo: non solo producendo grosse moli di contenuti, ma anche dedicando attenzione alla ricerca, allo studio, alla user experience, al seo tecnico, e anche alla community, perché Google ti stima se gli altri siti ti stimano e soprattutto ti linkano.
Ci sono anche coloro che non hanno numeri da capogiro, però hanno visto i colleghi crescere e ci hanno creduto. Si sono inventati un lavoro. Lavoro che dal di fuori a volte appare in qualche caso improvvisato, ma che comunque beneficia qualità provate e vendibili come: creatività (sì, è una skill lavorativa), comunicatività, capacità di fare rete.
A me il mondo dei blogger piace ancora e ancora mi riconosco nella nicchia (forse per la mia distanza da ciò che è mainstream, che identifico come una caratteristica della blogsfera).
Ma c'è una cosa che odio, in questa evoluzione: quando si parla di personal branding.
Secondo me, quello che volevate dire, è "tone of voice"; se invece volevate dire proprio "personal brand" per favore, ripensateci. Personal branding è un ossimoro.
Certo, potete prendere a prestito dal marketing degli spunti per comunicare meglio il vostro lavoro, ma usare sempre lo stesso font e la stessa linea grafica, postare ogni giorno su Facebook all'ora più premiante secondo le statistiche, e farvi una mailing list a cui spedire con Mailchimp non significa che voi siete diventati un brand. Vi prego no.
Vi prego non ingabbiate la vostra fantasia nella "comunicazione coordinata", o almeno, se trovate uno stile che vi rappresenta, non diventatene schiavi. Non convincetevi troppo di quello che state comunicando, e soprattutto non diventate i paladini degli spazi banner che vendete.
Sebbene sia giusto e normale che un'agenzia, o una persona che lavora nella comunicazione, si pieghi a clienti con morale più o meno dubbia, non mettete la vostra faccia su Facebook al servizio di marchette abiette. Non difendete prodotti indifendibili, tra una foto e l'altra dei vostri figli. Per farvi uomini e donne di marketing spesso basta un dignitoso silenzio.
Attingete a piene mani dalle tecniche di comunicazione pubblicitaria. Prendete ispirazione dal marketing e definite il posizionamento di quello che volete vendere. Siate bravi come i commerciali a stringere mano virtuali.
Ma abbiate qualche caposaldo personale, per favore. Decidete dove finisce il lavoro e dove inizia la vostra persona. No, non è vero niente che sono la stessa cosa.
Non siete voi stessi, il prodotto da vendere.
Siate la testa dietro al brand e non solo la faccia davanti.
Recentemente ho sostenuto un colloquio. Cambierò azienda. Al colloquio naturalmente abbiamo parlato molto di campagne web, e ho venduto il mio lavoro, quello che sapevo fare. Poi, a sorpresa, mi è stato chiesto "Sul lavoro, cosa ti spaventa?", e lì è saltata fuori Valentina, o forse addirittura Polly, e non l'ho venduta.
"Mi spaventa l'idea di svegliarmi una mattina che ho sessant'anni, di guardarmi indietro, e di aver solo lavorato".
Bè, mi hanno assunto lo stesso.
Qualcuno, come me, credo, è sempre rimasto fedele a se stesso e questo non è necessariamente premiante in termini di performance (e per un blog la performance è, in generale, l'aumento del numero di lettori), ma se l'obiettivo è il piacere personale, delle performance sticazzi, anche perché delle performance, per conto di altri, me ne devo già occupare otto ore al giorno. Questi blog, a parte qualche esempio brillante che è stato ripreso dai mass media e ha ingranato un circolo virtuoso di "popolarità", non sono "cresciuti", dove per crescere intendo diventare "mainstream". Spesso sono persino morti.
Altri blog si sono evoluti diventando "magazine", più o meno di nicchia. Questi blogger propongono contenuti non sempre strettamente personali ma condivisibili da un numero abbastanza ampio di persone. Se sono stati dei bravi "community manager", allora sono cresciuti e sono in grado di vendere spazi pubblicitari e "native advertising": quelle che vengono chiamate, in maniera impropria e se volete anche ingiustamente offensiva, marchette. Questi blog hanno spesso hanno mantenuto un tone of voice proprio, riconoscibile, che suona "vero" e genuino (e spesso lo è!).
Meno blog sono stati così bravi da crescere molto grazie a Google: sono quelli che rispondono a delle domande tipo "Come si fa la besciamella?"; "Cosa vedere a Parigi?". Ce l'hanno fatta, a mio avviso, puntando alla massa con registri non tradizionali (almeno in Italia, qualcuno che comunichi allo scopo di farsi capire, è una novità assoluta). Hanno lavorato sodo: non solo producendo grosse moli di contenuti, ma anche dedicando attenzione alla ricerca, allo studio, alla user experience, al seo tecnico, e anche alla community, perché Google ti stima se gli altri siti ti stimano e soprattutto ti linkano.
Ci sono anche coloro che non hanno numeri da capogiro, però hanno visto i colleghi crescere e ci hanno creduto. Si sono inventati un lavoro. Lavoro che dal di fuori a volte appare in qualche caso improvvisato, ma che comunque beneficia qualità provate e vendibili come: creatività (sì, è una skill lavorativa), comunicatività, capacità di fare rete.
Lucia, fumettista in erba |
A me il mondo dei blogger piace ancora e ancora mi riconosco nella nicchia (forse per la mia distanza da ciò che è mainstream, che identifico come una caratteristica della blogsfera).
Ma c'è una cosa che odio, in questa evoluzione: quando si parla di personal branding.
Secondo me, quello che volevate dire, è "tone of voice"; se invece volevate dire proprio "personal brand" per favore, ripensateci. Personal branding è un ossimoro.
Certo, potete prendere a prestito dal marketing degli spunti per comunicare meglio il vostro lavoro, ma usare sempre lo stesso font e la stessa linea grafica, postare ogni giorno su Facebook all'ora più premiante secondo le statistiche, e farvi una mailing list a cui spedire con Mailchimp non significa che voi siete diventati un brand. Vi prego no.
Vi prego non ingabbiate la vostra fantasia nella "comunicazione coordinata", o almeno, se trovate uno stile che vi rappresenta, non diventatene schiavi. Non convincetevi troppo di quello che state comunicando, e soprattutto non diventate i paladini degli spazi banner che vendete.
Sebbene sia giusto e normale che un'agenzia, o una persona che lavora nella comunicazione, si pieghi a clienti con morale più o meno dubbia, non mettete la vostra faccia su Facebook al servizio di marchette abiette. Non difendete prodotti indifendibili, tra una foto e l'altra dei vostri figli. Per farvi uomini e donne di marketing spesso basta un dignitoso silenzio.
Attingete a piene mani dalle tecniche di comunicazione pubblicitaria. Prendete ispirazione dal marketing e definite il posizionamento di quello che volete vendere. Siate bravi come i commerciali a stringere mano virtuali.
Ma abbiate qualche caposaldo personale, per favore. Decidete dove finisce il lavoro e dove inizia la vostra persona. No, non è vero niente che sono la stessa cosa.
Non siete voi stessi, il prodotto da vendere.
Siate la testa dietro al brand e non solo la faccia davanti.
Recentemente ho sostenuto un colloquio. Cambierò azienda. Al colloquio naturalmente abbiamo parlato molto di campagne web, e ho venduto il mio lavoro, quello che sapevo fare. Poi, a sorpresa, mi è stato chiesto "Sul lavoro, cosa ti spaventa?", e lì è saltata fuori Valentina, o forse addirittura Polly, e non l'ho venduta.
"Mi spaventa l'idea di svegliarmi una mattina che ho sessant'anni, di guardarmi indietro, e di aver solo lavorato".
Bè, mi hanno assunto lo stesso.
quanto, ma quanto hai ragione
RispondiEliminaBellissimo
RispondiEliminaChe fuori che sono... Pensavo di stare commentando qui invece ho commentato altrove... Oh bon! Cmq bel post Polly.
RispondiEliminaMi sarebbe piaciuto frequentare una scuola in cui si insegnava a vendere se stessi. Perché non credo sai che si possa scindere il proprio lavoro da ciò che si è, quando il lavoro in questione è quello che crei ed è quello che ti fa andare avanti ed è quello che non ti molla mai anche quando dovresti essere in vacanza e non ti fa dormire e tutte quelle cose lì... Tipo la passione. Tipo la creazione. Bé io credo che questo sia inscindibile dalla propria persona. Altrimenti sarebbe ipocrita oppure sarebbe comunicazione. Oppure altro. Lo so scusa come sempre mi sono straspiegata malissimo.
Ma, probabilmente hai ragione tu, non esiste un personal brand. Ed è solo la mia idea romantica e pornografica dell'arte.
No no aspetta, tu sei una creativa a tutto tondo, mica uno può scindersi. Anche io, per dire, ci sono tantissime caratteristiche che mi porto dietro sul lavoro e anche a casa. Non so: la sensibilità per la parola, la fatica ad accettare regole e autorità, il pensiero creativo. Sono io sia in ufficio che a casa.
EliminaQuello che volevo dire è che il blogger è chi, tradizionalmente, ci ha sempre messo la faccia. Ma ho l'impressione che questa enfasi sul "personal branding" a volte sia una spinta a battersi per difendere una campagna o a promuovere un brand ben oltre i confini dello spazio banner, a tutto vantaggio di soggetti che NON sono i blogger. Quello che io sto dicendo è: ok, piazza pure tutte le campagne sul tuo blog, ma cerca di non farti sfuggire le cose di mano, tipo mettendoci faccia e nome su Facebook a difendere campagne indifendibili. Trova un equilibrio tra la tua persona (con idee, gusti, priorità, abilità) e il tuo ruolo di publisher, che deve ospitare pubblicità (a volte anche discutibile) per campare.
Condivido in pieno!
Elimina;-)))
EliminaMolto interessante e ben scritto
RispondiEliminaanche io ho la stessa paura e purtroppo non cambio azienda.
RispondiEliminaTi confesso che da blogger molto sui generis non ho mai aspirato a grandi numeri né mi ha mai sfiorato l'idea della pubblicità. Non sono sui social, non sono un magazine,faccio un altro lavoro e quando mi imbatto in un blog pieno di pubblicità (palese o occulta)...semplicemente non lo leggo. Te,invece,ti leggo...perché sei vera
RispondiEliminaCiao Valentina, condivido in gran parte ciò che scrivi. Tuttavia esistono alcuni blog, e blogger di conseguenza, in cui la persona e il professionista tendono a coincidere. Loro amano definirsi solopreneur (possiamo anche solo limitarci a chiamarli freelance) e la loro individualità -composta da carattere+personalità+competenza+unicità+professionalità- è di fatto quanto di più simile a un brand possiedano. E il blog è la finestra più versatile, complessa, utile e gratuita con cui possono comunicarlo. In questi casi, se ben architettato e coerente, non trovo che parlare di personal branding sia concettualmente sbagliato, pretenzioso o altisonante, o peggior ancora svilente per la "persona". Di fatto dietro quel blog si cela una partita IVA, e lo scopo del blog è quello di vendere a imprese o privati il servizio in cui il solopreneur è specializzato.
RispondiEliminaAggiungo che come fruitrice di un servizio, ma anche come lettrice, troverei distonico un blog personale estraneo o incoerente, dal punto di vista estetico-comunicativo, rispetto allo stile del professionista che ne cura i contenuti.
Detto tutto ciò, congratulazioni per il tuo nuovo lavoro e grazie per quello che scrivi e come lo scrivi!
Sono molto d'accordo con te. Penso però che un professionista che per lavoro o piacere ha un blog, è una cosa. E' un modello di business che prevede la presenza di un servizio da vendere e se vuoi il brand è il professionista: in quel caso parlare di personal branding può essere sensato ma io considero sempre pericolosa la completa identificazione tra quello che siamo e quello che facciamo, anyway, è una mia opinione personale.
EliminaQuando invece parliamo di publisher (cioè un modello di business basato sulla vendita di spazi banner, DEM, native advertising e quant'altro), l'identificazione tra la propria persona e le campagne banner che si accettano è ancora più pericolosa e credo che chi parla di personal branding, per questi editori, lo faccia a tutto vantaggio dei brand.
Terzo caso che mi viene in mente: un blogger ha un po' di notorietà, magari non ha i numeri per vivere di campagne banner ma vuole sfruttare il suo ruolo di influencer. Qualcuno gli parla di personal branding. Io dico, benissimo, ma un brand senza un servizio o un prodotto che ci sta a fare? Ah, il prodotto sei tu? Pensaci bene.
Io uso il blog a mo' di psicologo, come sfogo e basta...pensa te quanto sono indietro... :-)
RispondiEliminaehilà, congratulazioni per il tuo nuovo lavoro anno nuovo lavoro nuovo.
RispondiEliminaPer quanto riguarda noi dal pensiero porno, sapessi quant'è difficile piazzare il nostro prodotto alla massa coesa ed omogenea del nostro amato generoso immaginifico bobbolo, omogeneizzato da anni di chiachiere sapientemente diffuse da tutti i media posseduti dai suoi furbi caporioni circonvettori di incapaci,al cui confronto la Wanna era una dilettante