Ero in fila al semaforo, praticamente a casa, e ascoltavo la mia canzone triste. Non perché fossi triste, a dire la verità.
Sul marciapiede, un ragazzino africano, forse delle medie.
L'ho riconosciuto, l'avevo visto il giorno prima al discount. Era dietro di me alla cassa e aveva chiesto due scontrini separati, uno per il pane, uno per lo zucchero, ma subito non si era capito, e la commessa si stava impercettibilmente spazientendo ma poi ha visto che era solo un bambino.
Ricordo che avevo pensato: familiari e amici lavorano e lui probabilmente si rende utile, perché è troppo piccolo per lavorare e troppo grande per giocare e basta.
Gli africani hanno questo senso della comunità. Non è uno stereotipo che ho inventato ora io su due piedi, me lo dice sempre una mia collega africana. Dice che là non sei mai solo, anche se poi qui ci sono più regole e le regole fanno vivere meglio tutti. Soli.
Ma poi l'Africa è così grande, più grande di quanto riesco a immaginare, che credo che stare in Kiwu o in Algeria o a Johannesburg non sia la stessa cosa. "Volevo solo dire che l'Africa non sono quei bambini magri con le mosche che vi fanno vedere alla tv in Italia", mi risponderebbe.
Dunque il ragazzino stava sul marciapiede, solo, come se aspettasse.
Ho guardato lo specchietto retrovisore e da un furgone di un artigiano sono usciti due tizi, in mezzo alle auto incolonnate e seriose.
Erano vestiti da lavoro. Uno più vecchio, con le spalle un po' curve come tutti quelli molto alti, quelli che per interagire devono sempre guardare giù. Uno più giovane, con gli occhiali a specchio e la musica nelle orecchie. Camminava dinoccolato.
Hanno raggiunto il ragazzo, non si sono detti quasi nulla, si sono incamminati sul ponte.
Davanti, le case e le colline. Sotto, il fiume.
Li guardavo andare verso le colline e ho pensato che non deve essere così diverso, tornare dal lavoro, in Africa. Non so perché mi veniva da piangere, allora.
Forse perché ascoltavo la mia canzone triste.
"Ed avrebbe voluto sentire il calore di un altro corpo sotto alle coperte"
Sul marciapiede, un ragazzino africano, forse delle medie.
L'ho riconosciuto, l'avevo visto il giorno prima al discount. Era dietro di me alla cassa e aveva chiesto due scontrini separati, uno per il pane, uno per lo zucchero, ma subito non si era capito, e la commessa si stava impercettibilmente spazientendo ma poi ha visto che era solo un bambino.
Ricordo che avevo pensato: familiari e amici lavorano e lui probabilmente si rende utile, perché è troppo piccolo per lavorare e troppo grande per giocare e basta.
Gli africani hanno questo senso della comunità. Non è uno stereotipo che ho inventato ora io su due piedi, me lo dice sempre una mia collega africana. Dice che là non sei mai solo, anche se poi qui ci sono più regole e le regole fanno vivere meglio tutti. Soli.
Ma poi l'Africa è così grande, più grande di quanto riesco a immaginare, che credo che stare in Kiwu o in Algeria o a Johannesburg non sia la stessa cosa. "Volevo solo dire che l'Africa non sono quei bambini magri con le mosche che vi fanno vedere alla tv in Italia", mi risponderebbe.
Dunque il ragazzino stava sul marciapiede, solo, come se aspettasse.
Ho guardato lo specchietto retrovisore e da un furgone di un artigiano sono usciti due tizi, in mezzo alle auto incolonnate e seriose.
Erano vestiti da lavoro. Uno più vecchio, con le spalle un po' curve come tutti quelli molto alti, quelli che per interagire devono sempre guardare giù. Uno più giovane, con gli occhiali a specchio e la musica nelle orecchie. Camminava dinoccolato.
Hanno raggiunto il ragazzo, non si sono detti quasi nulla, si sono incamminati sul ponte.
Davanti, le case e le colline. Sotto, il fiume.
Li guardavo andare verso le colline e ho pensato che non deve essere così diverso, tornare dal lavoro, in Africa. Non so perché mi veniva da piangere, allora.
Forse perché ascoltavo la mia canzone triste.
"Ed avrebbe voluto sentire il calore di un altro corpo sotto alle coperte"
Jagyasini Malakar per Unsplash |
e finisce così?
RispondiEliminavai avanti un altro pò, dai
Niente, è che dopo ho girato l'angolo e sono arrivata a casa.
Eliminail senso della comunità è un po' una fregatura, è un mito dello sviluppo, perché alla fine dentro le comunità ci sono relazioni gerarchiche di potere e di genere, come dentro le famiglie e dovunque, e c'è sempre chi rimane escluso, da questa presunta comunità. forse ti piacerebbe leggere Noviolet Bulawayo, o il libri della Adichie (che magari hai già letto?)
RispondiEliminaRoberta
Sapevo di esprimere un pensiero generico e ingenuo, però, avendolo sentito dire più volte da africani di diverse nazionalità, l'ho ritenuto verosimile.
EliminaIo per dire sto molto bene sola e il senso della comunità mi farebbe strippare subito :)
anche qui da nojos era così,escluso le città dove ci trasferimmo quando avevo 10 anni. Nei piccoli centri i bambini andavano a fare le commissioni: il latte, il pane, la pizzicheria. Non c'erano supermercati ed i negozianti facevano conti separati. Qualcuno poi ti regalava le 5 o le 10 lire, qualcuno niente, ma tu già lo sapevi.
RispondiEliminaPoi venne il consumismo e finì tutto, anche nei piccoli centri
Io sono nata negli anni 80 e le uniche persone che, anacronisticamente, cercavano di resistere al consumismo erano le mie maestre di scuola. Tipo che se rompevi una matita ti sgridavano, perché costringevi tua madre a comprartela nuova. Credo che fosse un bell'insegnamento, anche se non lo capivamo.
EliminaSei così brava...grazie per la condivisione di questi pensieri scritti come sai tu...
RispondiEliminaCi ho vissuto due anni e mezzo, in Algeria. Fidati, non è Africa, non c'entra nulla.
RispondiEliminaChe l'Africa sia molto grande e diversa e variegata e che il nord Africa sia culturalmente diversissimo dall'Africa sub sahariana, ci credo ciecamente, che l'Algeria non sia in Africa, uhm :)
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