Nota per i posteri: i commenti a questo post sono chiusi. Niente pacche sulle spalle, avevo solo voglia di fissare un ricordo. Scusate.
Quando ero piccola, mio padre non lo nominava nessuno, come fosse un obbrobrio.
I miei nonni materni, con cui passavo la maggior parte del tempo, le rare volte in cui lo nominavano lo chiamavano "tu pé", in dialetto. Tuo padre, significa. Non "il tuo babbo", "il tuo papà".
Anche mia madre avevo l'impressione che di lui non volesse parlare, anche se poi, quando ne parlava, diceva che mio padre lei l'aveva amato moltissimo.
Mia nonna materna, ci vedevamo poco, aveva una suo foto appesa al muro. Dicevano tutti che era identico a me.
E io ero figlia di quest'uomo che avevo conosciuto a malapena ma che era identico a me, fisicamente, e io l'avevo amato visceralmente e a trentun anni non ricordo di essere mai stata felice come l'unica volta che mi venne a prendere dall'asilo.
Quando ci facevano disegnare la professione di mio padre, dicevano sempre "Valentina la può inventare, oppure può scrivere la professione di suo nonno". Neanche a scuola mi permettevano di parlare di mio padre.
Mia nonna paterna, invece, diceva che "era stato un santo".
Io volevo crederci. Mia madre scuoteva la testa e non diceva niente.
Alle superiori c'era lo psicologo della scuola. trovai il coraggio di dire che mi mancava mio padre, disse com'è morto e io dissi non lo so.
Tornai a casa, avevo diciotto anni, e volli parlare di mio padre.
Mia madre mi parlava pochissimo, ma quando mi parlava era bellissimo (ora parliamo tanto, non ha più niente da tenere segreto, per proteggermi).
Seppi che non era stato un santo.
Non so bene chi fosse. Ho qualche suo libro sottolineato. Su uno c'è una dedica, l'aveva ricevuto nel carcere di Forlì.
Non so bene chi fosse, e, se è vero che era uguale a me, allora non so bene neanche chi sono io, dove vado, da dove arrivo, che cosa ci faccio.
La sera a volte lo ringrazio, oppure gli chiedo dei favori, se mi sento molto male. Chiedo a lui perché non credo in dio.
Però ancora non parlo mai di lui, con la voce intendo.
Quando ero piccola, mio padre non lo nominava nessuno, come fosse un obbrobrio.
I miei nonni materni, con cui passavo la maggior parte del tempo, le rare volte in cui lo nominavano lo chiamavano "tu pé", in dialetto. Tuo padre, significa. Non "il tuo babbo", "il tuo papà".
Anche mia madre avevo l'impressione che di lui non volesse parlare, anche se poi, quando ne parlava, diceva che mio padre lei l'aveva amato moltissimo.
Mia nonna materna, ci vedevamo poco, aveva una suo foto appesa al muro. Dicevano tutti che era identico a me.
E io ero figlia di quest'uomo che avevo conosciuto a malapena ma che era identico a me, fisicamente, e io l'avevo amato visceralmente e a trentun anni non ricordo di essere mai stata felice come l'unica volta che mi venne a prendere dall'asilo.
Quando ci facevano disegnare la professione di mio padre, dicevano sempre "Valentina la può inventare, oppure può scrivere la professione di suo nonno". Neanche a scuola mi permettevano di parlare di mio padre.
Mia nonna paterna, invece, diceva che "era stato un santo".
Io volevo crederci. Mia madre scuoteva la testa e non diceva niente.
Alle superiori c'era lo psicologo della scuola. trovai il coraggio di dire che mi mancava mio padre, disse com'è morto e io dissi non lo so.
Tornai a casa, avevo diciotto anni, e volli parlare di mio padre.
Mia madre mi parlava pochissimo, ma quando mi parlava era bellissimo (ora parliamo tanto, non ha più niente da tenere segreto, per proteggermi).
Seppi che non era stato un santo.
Non so bene chi fosse. Ho qualche suo libro sottolineato. Su uno c'è una dedica, l'aveva ricevuto nel carcere di Forlì.
Non so bene chi fosse, e, se è vero che era uguale a me, allora non so bene neanche chi sono io, dove vado, da dove arrivo, che cosa ci faccio.
La sera a volte lo ringrazio, oppure gli chiedo dei favori, se mi sento molto male. Chiedo a lui perché non credo in dio.
Però ancora non parlo mai di lui, con la voce intendo.