La città dove sono nata e dove ho vissuto venticinque anni si chiama F.
F. è un paesone che prima di spostarmi a BucoDelCulo consideravo provinciale come il far west. Ora so che c'è di peggio.
F. ha una sua vivacità culturale, anche se indolente, fighetta e salottiera.
Il locale più carino di F. era un covo di tossici fino agli anni novanta, e poi s'è riposizionato come cuore indipendente della città. In questo locale è stato inventato il movimento hipster prima che si chiamasse hipster. Vi si proiettano pellicole incomprensibili, si ospitano concerti di gruppi impossibili da reperire persino su youtube, i frequentatori vantano barbe salafite, tricologie indipendenti e montature bifocali da movimento studentesco da almeno quindici anni.
Eppur tuttavia, F. ha l'anima ruspante.
Una tre le mie trattorie del cuore, credo la più frequentata di sempre, è come cento metri quadrati di Napoli nel bel mezzo della Romagna. A Napoli in realtà non sono mai stata, soprattutto da quando ho sentito dire "Vedi Napoli e poi muori".
Il titolare è un napoletano conforme allo stereotipo del pizzaiolo napoletano: capelli nero lucido da scarpe, rigorosamente all'indietro, baffoni a spazzola, sempre neri, accento napoletano mai minimamente impallidito. Il turn over dei dipendenti è molto basso: fino a qualche tempo fa vi erano due procaci bionde, oggi mi sono stupita di incontrare due ragazzi napoletani, con l'accento marcato e il pizzetto.
L'arredamento non è mai mutato dagli anni ottanta, e i tavoli, collocati su due file nella sala lunga e stretta, con al centro un corridoio dove sfilano i camerieri, sono tutti rivolti verso il televisore al plasma, con Studio Aperto e la sua cronaca nera.
Gli avventori sono spesso anziani: chi solo, chi in coppia, chi con badante che maneggia con perizia la sedia a rotelle.
Oggi, a tavola a mezzogiorno in punto, come si conviene in questa parte del mondo ancora così ancorata alle origini rustiche, mangiavo tagliatelle al ragù, assieme agli altri apatici partecipanti alla monolitica conversazione televisiva e sentivo parlare di inquirenti, truffe ai danni dei contribuenti e morti assassinati e mi sentivo perfettamente contestualizzata, come se mi avessero appena preso da una stella dell'universo, e lanciato proprio in questo buco dentro all'Italia, di fronte a questa tovaglia a quadretti, nella mia città.
F. è un paesone che prima di spostarmi a BucoDelCulo consideravo provinciale come il far west. Ora so che c'è di peggio.
F. ha una sua vivacità culturale, anche se indolente, fighetta e salottiera.
Il locale più carino di F. era un covo di tossici fino agli anni novanta, e poi s'è riposizionato come cuore indipendente della città. In questo locale è stato inventato il movimento hipster prima che si chiamasse hipster. Vi si proiettano pellicole incomprensibili, si ospitano concerti di gruppi impossibili da reperire persino su youtube, i frequentatori vantano barbe salafite, tricologie indipendenti e montature bifocali da movimento studentesco da almeno quindici anni.
Eppur tuttavia, F. ha l'anima ruspante.
Una tre le mie trattorie del cuore, credo la più frequentata di sempre, è come cento metri quadrati di Napoli nel bel mezzo della Romagna. A Napoli in realtà non sono mai stata, soprattutto da quando ho sentito dire "Vedi Napoli e poi muori".
Il titolare è un napoletano conforme allo stereotipo del pizzaiolo napoletano: capelli nero lucido da scarpe, rigorosamente all'indietro, baffoni a spazzola, sempre neri, accento napoletano mai minimamente impallidito. Il turn over dei dipendenti è molto basso: fino a qualche tempo fa vi erano due procaci bionde, oggi mi sono stupita di incontrare due ragazzi napoletani, con l'accento marcato e il pizzetto.
L'arredamento non è mai mutato dagli anni ottanta, e i tavoli, collocati su due file nella sala lunga e stretta, con al centro un corridoio dove sfilano i camerieri, sono tutti rivolti verso il televisore al plasma, con Studio Aperto e la sua cronaca nera.
Gli avventori sono spesso anziani: chi solo, chi in coppia, chi con badante che maneggia con perizia la sedia a rotelle.
Oggi, a tavola a mezzogiorno in punto, come si conviene in questa parte del mondo ancora così ancorata alle origini rustiche, mangiavo tagliatelle al ragù, assieme agli altri apatici partecipanti alla monolitica conversazione televisiva e sentivo parlare di inquirenti, truffe ai danni dei contribuenti e morti assassinati e mi sentivo perfettamente contestualizzata, come se mi avessero appena preso da una stella dell'universo, e lanciato proprio in questo buco dentro all'Italia, di fronte a questa tovaglia a quadretti, nella mia città.
Credo che ogni città abbia una pizzeria così. Qui da noi ci vanno molti americani della base. Faranno si e no 30 pizze in una sera, se arrivi dopo le otto si scusano: è finita la pasta. Il locale sembra quello di Happy Days.
RispondiEliminaimmagino che non sia per scelta se il locale sembra quello di happy days :)
EliminaMa il punto è che lo hanno arredato ai tempi in cui è ambientato Happy Days e non l'hanno più toccato
EliminaPensa che c'è ancora Fonzie dentro, mummificato
EliminaStesso locale dalle mie parti; solo che i tavoli sono sparpagliati invece che disposti in due file e il proprietario è toscano: imberbe, tricolgicamente diverso ma sferico. Poi televisori al plasma, vecchietti, carte e, ogni tanto (anzi, spesso) qualche bestemmione creativo.
RispondiEliminaBè, almeno in questi posti si mangia bene, velocemente, abbondantemente, e a poca spesa...Il posto che dicevo più sopra è l'unico locale al mondo dove so di poter andare a cena alle ore 19 :)
Eliminami è venuta in mente un'immagine del telefilm La signora in giallo... :-)
RispondiElimina....ma il locale in voga negli anni novanta era per caso quello dove volendo ti servivano da bere nelle provette?...mi sfugge il nome però.....
RispondiEliminaNo, quello era lo Spider...non so cosa facciano ora, non vado da dieci anni ;)
Elimina...è verooo lo Spider! ci andavo quando avevo 15 anni fa, quindi 15 anni anni fa...ne ho un vago ricordo...ps: abito vicino a forlì ;-)
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