IL PROGRAMMA ANTIFUMO

Alle medie ci propinarono questa specie di programma antifumo, in seguito al quale cominciai a fumare.
Il progetto era articolato in due fasi. La prima mi pare fosse a carattere scientifico: ci fecero vedere come una sigaretta induce un principio di soffocamento nel sistema respiratorio di una macchinetta in plastica. Imparammo che è più sano fumare sigarette col filtro.
La seconda fase era più "partecipativa" e terminava con il compitino di intervistare un fumatore, il quale, da manuale, ci avrebbe dissuaso dal cominciare o continuare a fumare.
Non avevano previsto che il tabacco non è come l'eroina. Nessuno di noi si imbatté in fumatori fisicamente distrutti o particolarmente pentiti.
In realtà la mia maestra delle elementari era morta recentemente di cancro ai polmoni, e non potevo non ricordarla mentre fumava in classe. "Era arrivata a quattro pacchetti al giorno", mi disse qualcuno il giorno del suo funerale. Ma non poteva tornarmi utile per l'intervista, chiaramente.
A casa mia fumavano proprio tutti, meno mio nonno, redento dopo che un ictus l'aveva colto al bar Linus, mentre tracannava il primo caffè corretto cognac della giornata. Prima dell'ictus, ricordo benissimo la nonna che spazzava la cucina, dopo che il nonno, la sera prima, aveva spento almeno venti cicche sul pavimento, mentre guardava la televisione.
Mia madre fumava. I miei zii fumavano. Mio padre era già morto, ma fumare era stata la cosa più sana che aveva fatto nella vita.
Intervistai mia nonna. Stranamente, non oppose la sua solita muta e ostinata passività. "Non intendo smettere", asserì. "Le sigarette sono l'unica cosa che mi concedo. Se mi si rovina la pelle mi procurerò una crema adatta", e si accese una Diana.
Rubare una Marlboro rossa dal cassetto di mio zio fu fin troppo facile.
Avevo 11 anni.